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ZELENSKY INTERVIENE

Non perderti l'ultima entusiasmante puntata di
"Zelensky interviene"

L'avvincente nuovo reality americano in cui nonappena si raggruppano un po' di persone a un evento (dalle 20 in sù- anche feste delle medie), si materializza improvvisamente un megaschermo da cui sbuca un comico (che finge di essere un capo di Stato) che chiede al pubblico di scatenare la terza guerra mondiale insieme lui.
E la gente applaude!

Cioè oh regaz, bellissimo! Dovete vederlo! Fa troppo ride'.

Ogni volta con formidabile acume, grazie a un illustre ghost writer eroinomane, spara una sublime stronzata emozionale confezionata ad hoc per l'occasione.
Tipo se interviene alla "Sagra della Porchetta" lui attacca dicendo: "Perché questa sporchetta guerra abbia fine, mandateci armi a badilate". E giù applausi scroscianti!

Da sbellicarsi!

Dopo l'Eurovision song contest, i Grammy Award e le peggiori latrine dello showbiz nazionale e internazionale come il Parlamento italiano, l'ONU e la Comunità Europea, nell'ultima puntata di "Zelensky Interviene", il nostro ci emoziona al Festival di Cannes sparando un toccante : "Che il cinema non resti muto!" (Ma ricordatevi di inviarci missili e tifare per l'estinzione).
A mani basse una delle migliori performance di sempre del suddetto ghost writer eroinomane e del Presidente assediato meno assediato che si sia mai visto.
Cioè, tipo, Malgioglio fa meno comparsate. Manda suoi video dappertutto manco fosse una attricetta fallita di Hollywood, mentre intorno a lui piovono bombe (Si pensa stia nei sobborghi di Detroit).

Peraltro essendo sempre in ufficio e non al fronte, la maglietta verde sudata se la potrebbe pure cambiare ogni tanto, eh!

In ogni caso, non perdere la prossima puntata di "Zelensky interviene": Zelensky sarà ospite di "C'è posta per te" con un altro capo di Stato di eguale valore come Maria De Filippi e con la partecipazione straordinaria di Costantino e Fabrizio Ravanelli che aiuteranno Zelensky a lanciare una raccolta fondi per venti carri armati di seconda mano che ha recentemente trovato in offerta su ebay.

"ZELENSKY INTERVIENE" LO PUOI VEDERE OGNI DUE GIORNI SU TUTTI I CANALI DISPONIBILI!

LA DOPPIA REALTà

Come sapete, negli ultimi due anni mi sono chiesto sempre più spesso come facciano coloro che ancora vivono nel rassicurante lockdown celebrale ad ammettere, a carattere logico, la convivenza di idee in totale contrasto tra loro, senza cadere, nemmeno per un secondo, in un legittimo baratro amletico.
Gli esempi sono molteplici, dopo due anni di psicodemenza e verità di regime che si rivelavano panzane intergalattiche in un battito di ciglia. Il primo che mi viene in mente è l’essere ostinatamente convinti che i sieri magici funzionino e al contempo essere consapevoli (e ammettere candidamente) che i contagi siano aumentati a dismisura proprio nel 2021, a seguito dell’inoculazione di massa (in Italia venne registrato il record di contagi a dicembre 2021).
 
Spiegazioni logiche non ve ne sono. Perché la logica in questo paese è morta di overdose quando hanno mandato selvaggialucarelli a ‘intervistare’ il dott.De Donno.
È come se fossero prigionieri del libro “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler in cui, in sintesi, l’individuo si inventa nuovi mondi illusori per non affrontare la realtà dell’esistenza.
Forse, però, può aiutarci a capire qualcosa (almeno un po’) di questi cervelli lesi, fare dei confronti col passato e, perché no, scomodare Hannah Arendt e il suo celebre resoconto (La banalità del Male) sul processo al gerarca nazista Eichmann.
 
Ora, mi scuso già in anticipo col direttorissimo mentana che sicuramente stasera mi chiamerà per dirmi di vergognarmi e che non devo nemmeno pensare alla Arendt perché non c’entra assolutissimamente niente e che dovrei scusarmi solo di averla nominata perché sono nouac, mica ebreo. Quindi stronzo per scelta.
Però sentite quale negazione della realtà, ma più che negazione quale DOPPIA REALTà vivesse, senza minarne minimamente convinzioni logicamente opposte, un burocrate nazista quale Otto Adolf Eichmann.
 
Quando nel 1961, dopo essere stato pizzicato in Argentina, venne processato a Gerusalemme per crimini contro l’umanità, Eichmann non ebbe alcun problema ad ammettere le nefandezze compiute dal regime nazista e il suo ruolo attivo (e impeccabile) nell’organizzazione di rastrellamenti, deportazioni di massa e campi di concentramento. Una delle cose che colpiscono di più è che questo grigio burocrate, che non faceva altro che eseguire ordini e ambire a una promozione come un normalissimo speranza roberto, sembrava (almeno alla Arendt) fermamente convinto che le sue azioni fossero in realtà un modo per ‘salvare’ gli ebrei. Secondo Eichmann il fatto di essere a capo del “Progetto Madagascar” con il quale il Reich progettava di deportare tutti gli ebrei fuori dall’Europa per trasferirli nell’isola africana, era la prova che egli in realtà operasse per ‘salvarli’ dalla pulizia etnica nel vecchio continente.
 
E fin qui uno potrebbe pensare a un maldestro tentativo di giustificarsi. Ma sarebbe un abbaglio. Eichmann ci credeva davvero nel progetto Madagascar. Nonostante tutto intorno a lui gridasse che era solo fumo negli occhi.
Infatti quando la Corte di Gerusalemme gli mise sotto il naso due documenti del 21 Settembre 1939 che erano passati dalla sua scrivania e che ventilavano la cosiddetta “soluzione finale” senza specificare cosa fosse, Eichmann avrebbe potuto giustificarsi testimoniando che la “soluzione finale” fosse appunto il progetto Madagascar di cui era a capo.
 
E invece dopo aver letto il documento disse senza esitazione che secondo lui “l’obiettivo finale” poteva solo significare lo sterminio fisico e che “questa idea basilare era già radicata nelle menti dei capi supremi”.
 
La doppia realtà. Eichmann avrebbe potuto e dovuto ammettere (perché le due prospettive erano in totale antitesi) che il Progetto Madagascar fosse una finta per depistare l’opinione pubblica e le agenzie internazionali. Avrebbe potuto dire di essere stato ingannato a sua volta.
Ma non lo ammise mai.
Non cambiò mai versione durante il processo, continuando ad affermare che il progetto Madagascar fosse assolutamente in agenda, sebbene in realtà la “soluzione finale” si stesse già attuando non solo in Polonia, ma anche nel resto d’Europa.
 
“Era come se quella vicenda fosse incisa su un nastro diverso della sua memoria, e non c’era ragionamento, argomento, dato o idea che potesse intaccare questa registrazione” scrive la Arendt.
 
La sua memoria era come un magazzino pieno di storie ed avvenimenti, totalmente scollegati tra loro e dunque insondabili in un quadro di insieme.

COME RECENSIRE “OCCHIALI NERI” DI DARIO ARGENTO SENZA AVERLO MAI VISTO (e non avere intenzione di farlo)

Se non ne aveste abbastanza del film dell’orrore quotidiano a cui ci hanno abituato i nostri amati mezzi di informazione, prossimamente ci si può torturare, anche al Cinema, guardandosi l’ultimo rantolo di Dario Argento. Almeno se avete voglia di impiccarvi, lo farete con la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta.

La mamma mi diceva sempre di assaggiare prima di dire se una cosa mi piaceva o meno. Ma la mamma non aveva assistito al lento e straziante finale della carriera di Dario Argento. Quindi mi perdonerà, ma con Occhiali Neri, il nuovo prodotto del fu maestro dell’horror, proprio non ce la faccio. Anche se è stato presentato al Festival di Berlino, anche se è il ritorno del regista dopo dieci anni (ci sarà stato un motivo). Anche se lo stanno pubblicizzando alle fermate degli autobus più della quarta dose ed è destinato a riscuotere lo stesso successo.

Non ho alcuna intenzione di vederlo. A dire il vero non potrei nemmeno farlo perché non ho il grinpasse (e forse per questo devo ringraziare un altro maestro dell’orrore come robertino speranza), ma non lo guarderei nemmeno se fosse per far tornare Zelinsky a fare il comico in latex.

Questo è un consiglio spassionato per mantenere vivo il ricordo del vecchio Argento. Quello di Profondo Rosso, L’uccello dalle piume di cristallo e il Gatto a nove code. Quello prima del metadone, per intenderci. Come la pizia vi avverto: non guardatelo! Fidatevi! Evitatelo come se fosse il VHS di The Ring. Ho un amico vaccinato a Berlino che è andato alla prima e poi ha sofferto di una trombosi ad entrambi gli occhi. Per la bruttezza del film, sia chiaro.

Occhiali Neri era già marchiato a caldo con l’indelebile segno della stronzata intergalattica quando, nel 2020, Asia Argento ficcanasando (probabilmente strafatta) nella soffitta del padre, ha estratto questa sceneggiatura chiusa dentro un cassetto che se era lì ci sarà stato un motivo.

Il risultato di questa co-produzione della figlia, risulterà ancora una volta una insuperabile minchiata. E, ripeto, lo dico senza averlo mai visto e non avere alcuna intenzione di.

Non solo perché gli ultimi novantotto film del maestro sono stati tutti (tutti) delle coliche renali. Non solo perché ancora una volta ci recita Asia che possiede la rara dote di far rivalutare come attore Alberto Tomba. Ma sicuramente non la povera Ilenia Pastorelli, protagonista del film. Un binomio, quello col padre, oramai sinistramente simbolo di zenit di abiezione cinematografica, citato anche sul Mereghetti come “la famiglia monnezza del cinema”.

Non solo perché Dario dopo aver posto una lapide sulla sua carriera con l’osceno (ma, ahilui, non è un complimento) Dracula 3D si era ritirato e c’aveva promesso che sarebbe rimasto rintanato nel suo loculo fino a quando qualcuno non gli avesse trafitto il cuore con un paletto di frassino. Non solo perché è tornato per girare il solito film da Argento con il solito serial killer psicopatico da Argento di cui nessuno sentiva la mancanza (soprattutto quando gli psicopatici, oggi, sono tutto intorno a noi).

No. Vi dico di evitarlo come un hub vaccinale perché sarà un film di paura floscio, perché sarà la solita brutta copia dei vecchi film buoni. Ciò che il povero Dario e la sua candida figlia non vogliono accettare è che i tabù che infrangevano (l’uno in pellicola e l’altra con la propria carriera post-it di attrice/celebrity), ora non sono più tali.

Il cinema di Dario Argento negli anni 80 ci impressionava per scene pop, fantasiosi ed estetizzanti omicidi, sangue a fiotti come quadri impressionisti, schizofrenia ed esoterismo spinto come a una riunione di famiglia dei Rothshild. Smascherava i tabù della società borghese italiana che era vittima dei propri retaggi culturali cattolici e delle proprie celate schizofrenie moderne.
Di quel piano di lettura, tipico anche degli horror di Pupi Avati, non è rimasto nulla.

Ciò che è rimasto sono sicuramente le scene splatter che negli anni ottanta terrorizzavano la Curia ma che oggi sono quotidianamente e oscenamente superate dall’ultraviolenza (per dirla alla Kubrick) vigente nei nostri palinsesti. Dal sesso e dalla provocazione costante come intermezzo tra una pubblicità e un notiziario.

Siamo stati anestetizzati con emozioni vuote e bombardamenti di terrore. E di conseguenza sono cambiate le paure perché esse mutano in relazione al quadro etico, storico e sociale a cui si rapportano. Siamo cambiati noi.
Mentre Dario da quarant’anni ha due tipi di trame. 1- quella col serial killer 2 - quella col sabba. Ma soprattutto soffre di un grande problema che attanaglia gli autori più noti. Una malattia genetica che colpisce le pellicole di molti vecchi registi. Quella di essere dei buchi neri col nome del regista intorno. Prodotti nati e sponsorizzati solo ed esclusivamente per spremere il nome Dario Argento come un limone quando in realtà Dario Argento è già morto da un pezzo. Artisticamente parlando, eh.

Anche se dal colorito plumbeo che sfoggia solitamente, uno poi non è tanto sicuro che sia defunto solo artisticamente.


COME DISINNESCARE IL DISSENSO CON UN PROGRAMMA TV: QUINTO POTERE di Sidney Lumet (per GiubbeRosse)

“Revolution Will not be Televised” cantava Gil Scott-Heron nel 1971. Ma come può un macro evento come una rivoluzione, non andare in onda in televisione?

Diverso tempo fa mi è capitato di vedere Network di Sidney Arthur Lumet e ho capito che se la “rivoluzione” va in televisione, dopo della rivoluzione non resta più niente.

Questo uno degli (innumerevoli) messaggi (non troppo) subliminali di questo indicibile filmone, citato e depredato dai videomaker (dal sottoscritto più volte) e sceneggiato da Paddy Chayefsky. Già nel lontano 1976 il plot del commediografo ci svelava senza peli sulla lingua quali siano le “forze primordiali” (per dirla come nel monologo da pelle d’oca di Ned Beatty) che stritolano e incatenano un mass media alla parzialità per statuto. Ma raga, è roba che si sa solo da cent’anni. Che severgnini se ne faccia una ragione.

Il male non è la stupidità umana come suggerisce il recente Don’t Look Up (che tanto deve a questa sceneggiatura folgorante di Chayefsky), ma la logica spietata della rete (per l’appunto il network) di rapporti e di interessi produttivi, finanziari e speculativi che falcidiano alla fonte qualsiasi pretesa di neutralità e, di conseguenza, qualsiasi illusione democratica. In comune, il prodotto di McKay e quello di Lumet hanno il tono satirico e pungente dei dialoghi frizzanti e sagaci e, soprattutto, una critica feroce sia del mondo dei media, sia dei loro fruitori disumanizzati. Noi.

Perché tra di noi c’è un’intera generazione che non ha mai saputo niente se non attraverso la tv”.

Sappiamo quanto questa frase sia oggi tragi-comicamente vera. La tv è un circo, un carnevale di finzione, dice il “profeta pazzo dell’etere” al suo pubblico. E non appena termina il monologo, sviene a terra come un Jucas Casella, con la musica che sale e gli applausi scroscianti. Perché Network è pure ironico, sebbene incastrato in una regia da film d’inchiesta.

Prodotto della Hollywood dei bei tempi inesorabilmente andati, Network è un trattato di critica sociologica applicato a un’emittente televisiva (mass-mediologia pura, intesa come analisi dei rapporti di produzione) che senza alcuna motivazione valida è stato tradotto in italiano in “Quinto Potere”. Un po’ perché è una sorta di sequel ideale di Quarto Potere di Orson Welles, un po’ perché in Italia dall’alba dei tempi persiste questa antica tradizione di tradurre titoli a cazzo.

Non solo grandiosi monologhi che tolgono il respiro (su tutti quelli di Peter Finch o di William Holden) che parlano della società di ieri, di oggi e di domani senza invecchiare di un minuto. Non solo personaggi squisitamente paradossali, “umanoidi” drogati di share fino all’orgasmo (letteralmente) e felicemente votati alla nevrosi di cui il ruolo interpretato da Faye Dunaway è il più magnifico (e mostruoso) esempio. “Tutto ciò che voglio dalla vita è un indice di 30 e un alto gradimento”.

Faye Dunaway in una celebre scena del film

Una trama geniale

Ma è anche e soprattutto una trama audace e strutturata che tiene il tempo come un orologio svizzero. La pellicola si sviluppa intorno alla figura di uno stimato anchorman di un telegiornale, Howard Beale, sul punto del licenziamento dopo quindici anni. Depresso, alcolizzato, in crisi di nervi e con un indice di gradimento in picchiata che manco chicco mentana. “Ero uno di quelli seduti alla scrivania del ‘sapiente spassionato’ che riferisce con apparente distacco la parata di pazzie che costituiscono la cronaca”.

In una delle sue ultime apparizioni il conduttore si cala whisky a caraffe come se fosse Boris Johnson e sbrocca in diretta annunciando che si suiciderà in favore di telecamera. L’imbarazzante incidente fa infuriare i piani alti, ma crea aspettativa nel pubblico e risonanza mediatica. Così l’ad Frank Hackett (Robert Duvall) e Diana Christensen (Dunaway), contro le reticenze del vecchio ma integro direttore della sezione notizie Max Schumacher (Holden), decidono di “rischiare”. Perché il rischio è l’unica vera regola negli affari.

La rete, allora, offre a Beale un nuovo programma-baraccone in cui, tra maghi e indovini, possa dare sfogo alla genuina rabbia che pervade i suoi discorsi e che tanto sembra piacere agli spettatori, che non bisogna mai e poi mai lasciare annoiare.. “Gli americani sono incazzati. Dobbiamo dar loro programmi incazzati” tuona la favolosa Dunaway e viene da pensare alle riflessioni sulla stimolazione della rabbia da parte dei media per non perdere l’attenzione del pubblico, di cui parlava David Foster Wallace in alcuni suoi saggi sulle aragoste (se non sbaglio).

Poi, come in ogni storia che si rispetti, qualcosa va storto. Il prorompente successo iniziale del “profeta pazzo dell’etere” rilancia la carriera e persino l’aspetto dell’alcolizzato e malandato Beale che riacquista eleganza e contegno. L’indice di gradimento come elisir di lunga vita, ma anche come discernimento tra accettazione e discriminazione. L’anchorman, però, non si limita solo ad arrabbiarsi e a rivelare scomode verità. Quello di Howard Beale è un risveglio spirituale. Pura follia, in un universo senza valori e orgogliosamente nichilista come quello televisivo che travolgerà tutti come uno tsunami.

Disinnescare il dissenso

Ora, però, vorrei tornare alla canzone “Revolution will not be televised” di Gil Scott-Heron e sul perché la VERA rivoluzione non andrà in onda sul mainstream.

A ben guardare, uno dei messaggi più annichilenti di Network è proprio il mostrarci come i media abbiano il potere di inglobare le idee più sovversive e “devianti”, prosciugarle dei contenuti e darle in pasto all’audience in forma di uno spettacolare guscio vuoto.

Dunque, persino le invettive del profeta pazzo, per quanto pericolose e anti-sistemiche, vengono tollerate in nome del Dio audience. Ma solo perché, come osservava il filosofo Herbert Marcuse, il sistema dei media ha acquisito la capacità di riassorbire le forme culturali che gli si oppongono, disinnescandole.

La celebre scena del monologo di Peter Finch con cui lo showman convince migliaia di spettatori a urlare fuori dalla propria finestra uno slogan emozionale, rappresenta, in modo desolante, proprio questo.

L’unica “ribellione” che ci concediamo é spudoratamente incatenata al nulla osta dei media. È una ribellione indotta, un false flag. Prova ne è la scena che vi metto qui sotto, in cui Beale sfogando la propria frustrazione davanti alle telecamere autorizza i telespettatori ad essere incazzati. Ma invece di innescare una miccia e una reazione di massa, incanala la loro rabbia in una sorta di flash-mob che disinnesca la rabbia stessa.

É così che, anziché andare in strada a lanciare molotov contro il Parlamento, noi #restiamoacasa a cantare dai balconi come dei luigidimaio. I nostri pensieri e le nostre emozioni sono suggerite dai media. E, allo stesso tempo, il nostro stesso dissenso diventa reale solo quando passa dal messaggio ipnotico del mainstream. Dunque, sembra suggerire, l’idea stessa che abbiamo di sollevazione o di protesta è incatenata a quella che il sistema mediatico ci fornisce su un piatto d’argento. Avvelenato. Perché la tv infetta. “Sei la tv incarnata. – dice William Holden alla Dunaway in un struggente dialogo- Tutto quello che tocchi, muore”.

E quando guardi fabiocazio capisci quanto sia dannatamente vero.

Una tesi che torna più volte durante il film. Non a caso viene data profonda visibilità al personaggio che scimmiotta Angela Davis, l’attivista americana per i diritti civili con l’afro più iconico di sempre. La referente del partito comunista con la scusa della visibilità viene convinta a dare l’assenso per un (anticipatorio) docu-reality su alcuni gruppi terroristici affiliati. E nel momento stesso in cui scende a patti con le televisioni liberiste, si ammala per sempre, venendo risucchiata in una logica puramente mercantilista. Idem dicasi per i terroristi col vizietto del selfie che in un minuto si trasformano nella mano armata del sistema che dovevano combattere. Praticamente la storia di pasqualebacco.

Forse perché, quando entri nel business, poi è il business che entra in te e non ne esce più.

O forse perché la tv (o meglio i media), come dichiara il profeta pazzo Howard Beale, è la “più spaventosa forza di questo mondo senza Dio e Dio non voglia debba cadere nelle mani sbagliate”.

Ecco.. Campa cavallo.

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